Tribunale Roma, IX civile, 13 luglio 2017 – Prestito ipotecario vitalizio e patto marciano

(ord.) – Giudice Unico Carlomagno – D.C.R. (avv. Cesareo – avv. Scibilia) – V.B. (avv. Donvito)

Prestito vitalizio ipotecario – divieto di patto commissorio – patto marciano – anatocismo – usura

Il contratto di prestito vitalizio ipotecario è un negozio giuridico tipico caratterizzato, a differenza del credito fondiario, dalla determinabilità soltanto ex post della durata effettiva del contratto, rispetto al momento della stipulazione. Esso è, inoltre, contraddistinto da un’alea particolare legata non solo all’incertezza della durata del contratto ma anche alla necessità di fare affidamento sul pagamento da parte degli eredi, o, in alternativa, sul solo valore di realizzo dell’immobile. Deve quindi ritenersi giustificata l’esclusione della figura in questione, ai fini delle determinazioni del tasso soglia ex L. 106/96, dalla categoria dei “Mutui”, dovendo invece essere correttamente inserita in quella “Altri finanziamenti”, non essendo previsto il pagamento di rate comprensive di capitali e interessi.

  1. La questione

La decisione in esame costituisce senza dubbio una preziosa occasione per operare una attenta disamina in tema di prestito ipotecario vitalizio, ossia quel particolare contratto di finanziamento a medio e lungo termine, con capitalizzazione annuale di interessi e spese, subordinato alla concessione di un’ipoteca di primo grado su immobili residenziali, nonché all’obbligo del rimborso integrale – in un’unica soluzione al momento della scadenza – delle somme dovute.

In particolare, con l’ordinanza in commento il Tribunale Ordinario di Roma ha rigettato il ricorso ex art. 702 bis c.p.c. proposto dal soggetto finanziato nei confronti dell’istituto di credito, con il quale veniva dedotta la nullità parziale del contratto di prestito ipotecario vitalizio[1] contestando il superamento del tasso soglia – prendendo come riferimento la categoria dei mutui ipotecari a tasso fisso[2]-, sia in relazione a quello corrispettivo che a quello moratorio. Veniva altresì respinta anche l’eccezione di nullità della clausola contrattuale[3] che prevedeva la capitalizzazione annuale degli interessi, da ritenersi, secondo il giudicante, del tutto infondata “alla luce della espressa deroga all’art. 1283 c.c. contenuta nella disposizione citata”.

Così brevemente riassunta la sintetica ma al contempo esaustiva motivazione, si ritiene, per i profili che qui rilevano, che la menzionata pronuncia offra interessanti spunti di riflessione relativi alla nuova disciplina del prestito ipotecario vitalizio, la quale – come si vedrà meglio nel corso della presente trattazione – si inserisce in quel recentissimo filone normativo che, attraverso discipline di settore[4], ha, di fatto, comportato, a livello legislativo, una progressiva indiretta elusione del divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c. in favore di una rinnovata attenzione per il patto marciano, ossia l’accordo in base al quale il creditore è legittimato a vendere direttamente un bene del debitore soddisfacendosi sul prezzo ricavato, previa corresponsione a quest’ultimo della eventuale differenza tra l’importo del credito e il valore del bene dato in garanzia.

Al fine di comprendere a pieno tale ultima affermazione, la presente analisi si sviluppa lungo due campi di indagine, distinti ma al contempo strettamente correlati.

In primo luogo, è necessario operare un inquadramento ed una qualificazione del contratto di prestito ipotecario vitalizio, concentrandosi nel dettaglio sulla relativa disciplina, sulla struttura e sulla sua funzione all’interno dell’ordinamento.

Successivamente, si procederà invece all’esame del divieto di cui all’art. 2744 c.c. ed alla ammissibilità nel nostro ordinamento delle cd. “alienazioni a scopo di garanzia”: nella prassi negoziale, difatti, il perseguimento dello scopo di garanzia spesso viene realizzato mediante il ricorso allo schema tipico della vendita, contratto che ben si presta ad essere piegato al raggiungimento dello scopo concretamente ricercato dai contraenti.

In particolare, verrà poi prestata peculiare attenzione anche agli elementi tipizzanti la figura affine del patto marciano che, invece, è sempre stato ritenuto lecito ed ammissibile, sia dalla giurisprudenza che dalla dottrina prevalente.

Tale ultimo aspetto risulta essere di particolare interesse ai fini della presente indagine perché proprio attraverso la recente disciplina del prestito ipotecario vitalizio – insieme anche alle altre normative specifiche cui si è fatto riferimento in nota – lo stesso legislatore sembra difatti mostrare timide aperture all’indiretto riconoscimento del patto marciano anche nel nostro ordinamento, allineandosi in parte a quanto previsto anche in altri paesi europei.

Occorre difatti considerare che, a seguito della riforma del 2015, la novellata disciplina del contratto di prestito ipotecario vitalizio – quale espressione codificata del patto marciano – inizia a trovare finalmente piena applicazione nella prassi negoziale e, con la decisione che qui si annota, anche un primo riconoscimento a livello giurisprudenziale.

  1. La disciplina del prestito ipotecario vitalizio

L’attuale disciplina del prestito vitalizio ipotecario è entrata in vigore il 6 maggio 2015, a seguito della sostituzione integrale – ad opera dell’articolo unico della L. 2 aprile 2015 n. 44 – dell’art. 11-quaterdecies D.L. 30 settembre 2005 n. 203 (convertito in L. 2 dicembre 2005 n. 248), che nella sua formulazione originale aveva rappresentato un primo tentativo di introdurre anche in Italia il cd. reverse mortage (cioè “mutuo al contrario”) di matrice anglosassone[5].

Questa recente normativa ha delineato un nuovo strumento finanziario che consente a chi abbia già compiuto 60 anni di età (prima della riforma erano 65) di chiedere un finanziamento dall’importo commisurato alla propria età ed al valore dell’immobile offerto in garanzia.

Secondo la definizione contenuta nel comma 12 del menzionato articolo, il prestito vitalizio ipotecario «ha per oggetto la concessione da parte di banche nonché di intermediari finanziari» iscritti nell’albo ex art. 106 T.U.B.[6] «di finanziamenti a medio e lungo termine, con capitalizzazione annuale di interessi e di spese, riservati a persone fisiche con età superiore a sessanta anni compiuti» garantiti da ipoteca di primo grado su immobili residenziali, ed «il cui rimborso integrale in un’unica soluzione può essere richiesto al momento della morte del soggetto finanziato ovvero qualora vengano trasferiti, in tutto o in parte, la proprietà o altri diritti reali o di godimento sull’immobile dato in garanzia o si compiano atti che ne riducano significativamente il valore», inclusa la costituzione di diritti reali di garanzia.

In sintesi, si tratta di un finanziamento[7] ipotecario di “pura liquidità” rivolto a soggetti che si trovino nella cd. “terza età”, elaborato per consentire agli over 60 di “monetizzare”[8], al di fuori di uno schema traslativo, parte del valore illiquido[9] rappresentato da immobili di loro proprietà attraverso il ricorso al credito bancario e l’utilizzo della sola proprietà a scopo di garanzia; con il prezioso vantaggio, per il finanziato, di non dover lasciare l’immobile[10], né ripagare alcunché sino alla sua morte, nonché, per gli eredi, di poter mantenere il bene nel patrimonio familiare provvedendo alla restituzione della somma dovuta.

Volendo delineare la natura giuridica[11] del negozio di prestito vitalizio ipotecario, esso può qualificarsi come un contratto bancario di erogazione del credito, avente struttura variabile – le modalità di erogazione del prestito non sono difatti definite a priori dal legislatore ma è possibile ricorrere ad un qualsiasi schema negoziale (mutuo bancario o fondiario, rendita, apertura del credito) – e a carattere aleatorio, in quanto l’importo finale del debito non può essere conosciuto in anticipo, vista la scadenza naturale del contratto correlata alla morte del soggetto finanziato.

Inoltre, alla luce dell’espressa previsione in tema di interessi, il negozio in questione deve definirsi come un contratto essenzialmente oneroso. Sul punto, l’art. 11-quaterdecies, ai commi 12 e 12-bis, lascia libere le parti di scegliere, al momento della stipulazione del contratto, tra il rimborso graduale degli interessi e delle spese, senza capitalizzazione, o, in alternativa la loro capitalizzazione annuale.

La possibilità, riconosciuta in capo all’istituto bancario, di disporre in via automatica la capitalizzazione annuale degli interessi costituisce una vera e propria lex specialis rispetto a quanto previsto dal secondo comma dell’art. 120 T.U.B. e, senza dubbio, determina quale conseguenza inevitabile un rilevante aggravamento della posizione economica del soggetto finanziato.

A seguito delle modifiche operate nel 2015, in tema di prestito vitalizio ipotecario non trova quindi applicazione il divieto di anatocismo quale regola generale ma, al contrario, viene prevista in via automatica la capitalizzazione annuale degli interessi e delle spese, salvo una espressa eventuale deroga pattizia. Ci si trova pertanto di fronte ad una vera e propria inversione del rapporto regola – eccezione rispetto a quanto disposto dall’art. 1283 c.c.: ai commi 12 e 12 bis dell’art. 11-quaterdecies viene difatti prevista in “via ordinaria” la capitalizzazione degli interessi corrispettivi, la quale viene esclusa solo ed unicamente nell’ipotesi di espressa pattuizione contraria.

Detto in altri termini, visto che si riconosce alle parti la possibilità di concordare in via convenzionale il rimborso rateale degli interessi e delle spese, la scelta di non avvalersi di questa facoltà viene equiparata dal legislatore alla volontà, implicita, di escludere il pagamento delle somme dovute – a tale titolo – al momento della scadenza, prorogando in tal modo l’esigibilità di siffatta obbligazione e disponendo, come contropartita, la previsione di interessi anatocistici.

Ai fini della presente indagine occorre poi prestare particolare attenzione a quanto previsto dall’art. 11-quaterdecies in riferimento al rimborso del finanziamento e, soprattutto, ove ciò non avvenga, alle modalità di recupero del prestito.

Difatti, a partire dalla morte del soggetto finanziato, inizia a decorrere un termine di dodici mesi entro il quale gli eredi – o lo stesso finanziato, nell’ipotesi di scadenza anticipata per il verificarsi degli eventi sopra riferiti[12] – devono provvedere al rimborso integrale dell’importo dovuto, in modo tale da poter mantenere la proprietà dell’immobile.

La durata del finanziamento è dunque indeterminata in origine, ma certamente determinabile ex post, coincidendo con la vita del soggetto finanziato, il cui decesso costituisce il momento a partire dal quale l’obbligazione del rimborso diviene esigibile.

Al contrario, trascorso infruttuosamente detto termine senza l’avvenuta restituzione del quantum dovuto, il finanziatore[13] potrà procedere in via diretta alla vendita dell’immobile ipotecato «ad un valore pari a quello di mercato[14]» determinato da un perito[15] indipendente incaricato dal finanziatore ed utilizzare le somme ricavate per soddisfare il proprio credito, con la precisazione che quanto ottenuto in eccedenza rispetto alla somma dovuta a titolo di rimborso deve essere necessariamente riconosciuto «al soggetto finanziato o ai suoi aventi causa». Infine, a tutela del cliente, si prevede espressamente che l’importo del debito dovuto alla banca non possa in ogni caso superare il ricavato della vendita, al netto delle spese sostenute, facendo sì, in tal modo, che, né il soggetto finanziato né gli eredi possano essere chiamati a pagare una somma superiore al valore commerciale dell’immobile.

Questa modalità di rimborso si sostanzia, nei fatti, in un nuovo strumento di autotutela esecutiva unilaterale concesso al finanziatore, che, per procedere alla vendita, non sarà più costretto a ricorrere alle ordinarie procedure esecutive immobiliari in danno del debitore insolvente.

È quindi evidente come, a ben vedere, la reale tutela del finanziatore non sia rappresentata tanto dall’ipoteca[16] ma, piuttosto, esso sia costituita dal mandato con rappresentanza di fonte legale – da considerarsi irrevocabile in quanto concesso in rem propriam – strumento, questo, che consente al creditore di soddisfarsi sul prezzo della vendita, salvo l’obbligo di restituzione dell’eccedenza.

La vera garanzia a protezione del creditore è quindi rappresentata proprio dalla clausola marciana, di cui la normativa in esame ne costituisce una espressa codificazione, ed è proprio attraverso questa pattuizione che il legislatore ha provveduto a delineare i limiti e la portata del mandato (a vendere) riconosciuto in capo al finanziatore. Difatti, la previsione del potere di vendita attribuito al creditore, oltre al meccanismo di adeguamento in diminuzione del prezzo di vendita dell’immobile, nonché la stima del prezzo ad opera del perito indipendente ed, infine, la limitazione del debito al ricavato della vendita costituiscono un insieme di clausole caratterizzanti proprio il c.d. “patto marciano”, le quali permettono di non ritenere sussistente alcuna violazione del divieto del patto commissorio di cui all’art. 2744 c.c. così come si approfondirà di seguito nel dettaglio.

  1. Il divieto di patto commissorio e ammissibilità del patto marciano

Il patto commissorio – ossia l’accordo con il quale si conviene che, in mancanza del pagamento di un debito nel termine fissato, la proprietà del bene posto a garanzia dell’adempimento passi al creditore – non trova nel nostro ordinamento una espressa definizione e codificazione, anche se la genesi storica dell’istituto può essere individuata nella Costituzione Imperiale di Costantino con la cd. lex commissoria[17].

Il legislatore ha invece sancito il relativo divieto, sanzionando espressamente con la nullità il relativo accordo, con due distinte disposizioni codicistiche – gli artt. 2744 c.c. e 1963 c.c.[18] – entrambe rubricate “Divieto di patto commissorio”.

La collocazione sistematica delle menzionate norme indusse in un primo tempo gli interpreti ad operare una esegesi letterale delle stesse, ritenendo che il relativo divieto dovesse riferirsi esclusivamente ad un accordo tra debitore e creditore avente ad oggetto un bene gravato da una garanzia reale tipica (pegno o ipoteca) o personale (cd. patto accessorio tipico)[19].

Siffatta interpretazione, di tipo strettamente formalistico, mostrò sin da subito i propri limiti prestando, di fatto, il fianco alla possibilità di piegare strumenti tipici[20] alla mera finalità di garanzia del credito, proprio attraverso il ricorso a negozi, sì leciti, ma utilizzati al solo scopo di aggirare il divieto di patto commissorio in tutti i casi in cui la vendita del bene mascherasse, in realtà, la volontà di attribuirne la proprietà al creditore a fronte dell’inadempimento del debitore.

Proprio per tale ragione, sia in dottrina che in giurisprudenza si optò allora per lettura dell’art. 2744 c.c. in un’ottica “sostanzialistico – funzionale”, che consentì una applicazione estensiva del divieto in esame anche alle garanzie reali atipiche ed, in particolare, alle alienazioni a scopo di garanzia.

Si rilevò, difatti, come l’ambito operativo del menzionato divieto dovesse riferirsi anche ai cd. “patti commissori autonomi”, nei quali la funzione di garanzia viene perseguita mediante l’alienazione di beni, di per sé liberi da “pesi”, il cui trasferimento in favore del creditore acquirente è in realtà strettamente collegato all’inadempimento del debitore / alienante.

Per completezza, occorre inoltre evidenziare come la giurisprudenza[21] più risalente applicasse però il divieto in parola esclusivamente alle sole vendite sottoposte alla condizione sospensiva del mancato pagamento del debito, ritenendo viceversa del tutto lecite quelle in cui l’alienazione del bene fosse immediato ma risolutivamente condizionato all’eventuale adempimento del debitore, come ad esempio nelle vendite con patto di riscatto. Questa lettura trovava il proprio fondamento su una concezione cd. “cronologica” o “strutturale” del divieto di patto commissorio: secondo una interpretazione letterale dell’art. 2744 c.c., il trasferimento del diritto di proprietà deve necessariamente realizzarsi al momento dell’inadempimento del debitore – proprietario; al contrario, un simile rapporto cronologico ed effettuale tra inadempimento ed alienazione non sarebbe invece presente nelle vendite risolutivamente condizionate, nelle quali la proprietà viene invece trasferita al creditore sin dalla pattuizione e non al momento del verificarsi dell’inadempimento del debitore[22].

Un’ulteriore ragione per cui la giurisprudenza, in passato, ammetteva la validità delle vendite risolutivamente condizionate era individuata nell’assenza – in tali fattispecie – di una qualsivoglia “coercizione psichica” operata dal creditore nei confronti del debitore: attraverso l’immediato trasferimento della proprietà, l’alienante sarebbe in grado di operare una valutazione maggiormente consapevole in merito alla convenienza dell’operazione contrattuale.

Tale distinzione tra i due tipi di alienazioni venne però superata dalla giurisprudenza[23] nei primi anni ’80 del secolo scorso: in particolare, la Suprema Corte[24] rilevò come, ai fini dell’accertamento dell’esistenza del patto commissorio, “più che la dichiarazione circa il momento dell’effetto traslativo della proprietà, sono determinanti il comune intento delle parti di attribuire alla vendita funzione di garanzia e l’esistenza di un nesso teleologico e strumentale fra i due negozi posti in essere con uno stretto vincolo di interdipendenza, operante nel senso di attribuire irrevocabilmente il bene al creditore, in soddisfacimento del suo diritto solo all’atto dell’inadempimento”. Proprio applicando questo criterio cd. “funzionale”, la Cassazione, sempre in tale pronuncia, precisò altresì che alienazioni con scopo di garanzia sono caratterizzate da una “causa illecita, volta a frodare il divieto del patto commissorio attraverso il ricorso ad un procedimento simulatorio[25]”.

La Cassazione affermò quindi che il divieto in esame deve ritenersi operante in tutti i casi in cui, attraverso il trasferimento della proprietà, venga in realtà perseguita dai contraenti esclusivamente la sola funzione di garanzia e la “definitiva” alienazione del bene risulti essere invece legata alle vicende dell’obbligazione, senza che in merito possa rilevare né il nomem iuris utilizzato, né il momento in cui si verifichi l’effetto reale, in quanto, tanto la vendita sottoposta condizione sospensiva quanto quelle assoggettate a condizione risolutiva, nonostante le loro differenze strutturali, possono essere espressione di una medesima realtà causale. Ciò che rileva, dunque, è che il trasferimento della proprietà presenti un legame, di qualsiasi tipo, con un precedente rapporto obbligatorio e, in particolare, che lo stesso sia strettamente correlato al mancato adempimento dell’obbligazione.

Il criterio funzionale stabilito dal revirement del 1983, e tutt’oggi prevalente, si consolidò definitivamente solo in seguito all’intervento delle Sezioni Unite con due pronunce gemelle del 1989[26], grazie alle quali si superarono i contrasti di vedute registrati tra le diverse Sezioni[27] della Corte stessa.

Il divieto di in parola viene quindi oggi letto come un “divieto di risultato”: si enuncia, difatti, il principio in base al quale non è possibile configurare in astratto una categoria di negozi soggetti alla sanzione della nullità per violazione dell’art. 2744 c.c., potendo in astratto qualsiasi negozio – tipico o atipico – integrare la violazione di tale divieto, quale ne sia il contenuto, ove utilizzato per conseguire il risultato concreto, vietato dall’ordinamento, di far ottenere al creditore la proprietà di un bene appartenente al debitore laddove quest’ultimo non adempia alla propria obbligazione.

Questo orientamento si è poi consolidato nel corso degli anni, e, grazie ai recenti studi civilistici nell’ambito del contratto, la giurisprudenza[28] ha fatto ricorso, in particolare, alla moderna nozione di causa cd. in concreto per verificare la liceità dei nuovi schemi contrattuali sottoposti di volta in volta al suo vaglio, proprio con il preciso scopo di valutare l’eventuale difformità con il divieto di patto commissorio.

Come si è potuto rilevare, la citata evoluzione giurisprudenziale in tema di patto commissorio ha di fatto comportato una progressiva lettura estensiva del divieto in esame, mentre, al contrario, la chiusura nei confronti delle alienazioni di garanzia non ha precluso di considerare invece ammissibile il cd. patto marciano nel nostro ordinamento[29].

Pur non essendovi nell’attuale Codice una espressa previsione normativa sul punto, questo istituto trae origine da una antica elaborazione dogmatica che viene storicamente fatta risalire ad una interpolazione giustinianea[30] ad opera del giurista Elio Marciano, che riconosceva al creditore insoddisfatto la facoltà di appropriarsi della cosa ricevuta in garanzia, purché stimata al giusto prezzo.

Nei moderni sistemi giuridici, tale pattuizione può definirsi come l’accordo in base al quale il venditore diviene proprietario del bene nell’ipotesi di inadempimento da parte del debitore, con l’espressa previsione del correlato obbligo di restituzione dell’eventuale differenza fra il valore del bene (generalmente determinato da un terzo) e l’importo del credito[31].

In particolare, sarebbero proprio gli elementi tipizzanti il patto marciano – quali il ricorso ad una stima imparziale del valore del bene e l’obbligo del creditore di restituirne l’eccedenza – ad escludere l’illiceità di tale pattuizione per contrasto con l’art. 2744 c.c.

In tale ottica, la nullità del patto commissorio viene dunque fondata su una ratio esclusivamente patrimoniale[32], concernente la sproporzione tra il valore del bene in garanzia e l’entità del credito garantito e, in una prospettiva meramente economica, il relativo divieto si presta ad essere vanificato da un’impropria reductio ad aequitatem.

Secondo la Suprema Corte[33], difatti, più che “l’indagine sull’atteggiamento soggettivo delle parti” occorre operare “un accertamento di dati obiettivi, quali la presenza di una situazione credito-debitore (preesistente o contestuale alla vendita) e, soprattutto, la sproporzione tra entità del debito e valore del bene alienato in garanzia”. Proprio questa sproporzione mostrerebbe “una situazione di approfittamento della debolezza del debitore da parte del creditore, che tende ad acquisire l’eccedenza del valore, così realizzando un abuso che il giocatore ha voluto espressamente sanzionare”. Al contrario, l’illiceità è invece esclusa nel caso del patto marciano, in virtù del quale “al termine del rapporto si procede alla stima ed il creditore, per acquisire il bene è tenuto al pagamento dell’importo eccedente l’entità del credito”.

La giurisprudenza e la dottrina maggioritaria[34] non hanno dunque mai dubitato della validità del patto marciano, basando il loro giudizio positivo, in particolare, sull’elemento della mancata predeterminazione del prezzo dell’alienazione ed in considerazione della possibilità di controllare l’equilibrio tra le prestazioni alla luce dell’obbligo di restituzione al debitore dell’importo superiore.

In conclusione, ciò che delinea la sostanziale differenza tra le due tipologie pattizie è, pertanto, l’elemento oggettivo attinente al rapporto tra il valore del bene – che costituisce la dazione in garanzia – e l’ammontare del debito: può dunque ritenersi legittimo l’accordo per cui le parti stabiliscono una tutela ex ante delle proprie ambizioni satisfattive del creditore ma solamente a condizione che vi sia una stima del bene volta a sancire il giusto prezzo, che rappresenta la datio in solutum in caso di inadempimento del debitore[35].

  1. Conclusioni

Dal raffronto tra gli elementi caratterizzanti la disciplina del prestito vitalizio ipotecario e i principi enunciati dalla giurisprudenza in tema di patto marciano, si nota a semplice colpo d’occhio come questi ultimi siano tutti presenti nella nuova fattispecie di recente introduzione, quasi come se il legislatore avesse voluto scongiurare a priori eventuali punti di attrito con il divieto di cui all’art. 2744 c.c., soprattutto con particolare attenzione ad eventuali possibili profitti da parte del creditore a svantaggio del debitore. Del resto, la Suprema Corte, proprio nell’ottica di mitigare la portata del divieto di patto commissorio, anche alla luce delle esperienze sovranazionali, aveva escluso che la norma in questione potesse rientrare nel novero dei principi fondanti l’ordine pubblico internazionale[36].

Il legislatore, proprio tipizzando gli elementi caratterizzanti il patto marciano, ha operato una inversione di tendenza rispetto al citato orientamento restrittivo in tema di divieto di patto commissorio, fondato sul timore di un eventuale intento di sopraffazione del creditore nei confronti del debitore.

La nuova normativa qui esaminata costituisce, in particolare, una risposta alle nuove richieste in tema di utilizzo e valorizzazione della proprietà immobiliare e, soprattutto, cerca di colmare le evidenti lacune presenti nel modello “classico” delle garanzie reali, anche mediante il ricorso a strumenti di tutela del creditore che facciano a meno del necessario intervento giudiziale. Si può quindi affermare che, attualmente, l’art. 2744 c.c. non sia diretto a vietare in via automatica alienazioni con funzioni di garanzia in sé e per sé, dovendosi invece considerare lecite quelle in cui quali siano inseriti meccanismi di controllo sulla corrispondenza tra quanto dovuto dal debitore e quanto effettivamente incamerato in via definitiva dal creditore dopo la vendita del bene.

L’ordinanza in commento sembra, in tale ottica, prendere atto di questa innovativa visione della garanzia del credito che, con riferimento alla disciplina del prestito vitalizio ipotecario, senza dubbio impatta in maniera notevole con numerosi principi cardine del diritto civile. Difatti, responsabilità personale del debitore estesa a tutti i suoi beni presenti e futuri, divieto di anatocismo, divieto di patto commissorio, patto marciano ed, infine, tutela reale del legittimario vengono oggi riletti ed innovati in chiave moderna ed utilizzati al fine di disincentivare il ricorso alla tutela giurisdizionale. Ci troviamo, pertanto, di fronte ad una evoluzione dei classici istituti civilistici che da mero ostacolo al recupero del credito divengono, invece, proprio lo strumento utilizzato dal legislatore per riconoscere al creditore “privilegiato” la possibilità di ottenere in via autonoma il soddisfacimento dei propri interessi al di fuori delle aule di giustizia, alleggerendo in tal modo il contenzioso esecutivo.

Pavia, 18 settembre 2017

Avv. Elisa Bezzi

[1] Si tenga in considerazione che la decisione annotata ha per oggetto un contratto di prestito ipotecario vitalizio stipulato nel corso del 2011 e, pertanto, nel relativo giudizio si è fatto riferimento all’art. 11-quaterdecies d.l. 30 settembre 2005 n. 203 (conv. in l. 2 dicembre 2005 n. 248) nella sua previgente formulazione, prima dell’intercorsa modifica ex art.1 c. 1 legge 2 aprile 2015, n 44.

[2] Sul punto è interessante rilevare come, nell’Ordinanza in commento, il giudicante precisi che la figura del prestito ipotecario vitalizio, ai fini della determinazione del tasso soglia ex L. n. 108/96, debba essere inclusa nella categoria “Altri finanziamenti” e non possa essere invece ricondotta – come sostenuto dal ricorrente – a quella dei “Mutui”, la quale, secondo le Istruzioni della Banca di Italia, presuppone necessariamente il pagamento di rate comprensive di capitali ed interessi; circostanza, quest’ultima, non presente nell’istituto in esame.

[3] In particolare, al punto 3.4 dell’art. 3 del Contratto si pattuisce espressamente che: “Gli interessi maturati sul Finanziamento verranno capitalizzati annualmente e produrranno interessi al Tasso di Interesse. Gli interessi così capitalizzati dovranno essere corrisposti in unica soluzione alla scadenza del Finanziamento unitamente all’importo del Finanziamento ed ad ogni altra somma ancora dovuta. […]”.

[4] È possibile fare riferimento alle recenti figure del “Pegno mobiliare non possessorio” (art. 1 d.l. 3 maggio 2016, n. 59; conv. in l. 30 giugno 2016 n. 119), del “Contratto di credito ai consumatori correlato ad immobili residenziali” (art. 120-quisquiesdecies T.U.B.) e, ancora, del “Trasferimento di immobile sospensivamente condizionato all’inadempimento” (art. 48 bis T.U.B.).

[5] Come evidenziato da autorevole dottrina, il prestito vitalizio ipotecario è una fattispecie del tutto estranea alla nostra tradizione giuridica ed è frutto di un “legal transplant”; costituirebbe cioè un “trapianto” giuridico della figura contrattuale nata nel secolo scorso in Inghilterra con il nome di “lifetime mortgage” (mutuo vitalizio), che ha raggiunto la sua maggiore diffusione oltreoceano dove è nota come “reverse mortage”, ossia “mutuo al contrario”; cfr. G. O. Mannella – G. C. Platania, Il prestito vitalizio ipotecario, nei Quaderni del Notariato, Milano, 2015.

[6] Sul punto, autorevole dottrina ha correttamente rilevato che, siccome il prestito in parola può essere concesso solo da istituti bancari o intermediari finanziari iscritti negli appositi albi, risultano essere esclusi dal novero dei soggetti legittimati a fornire sul mercato tale tipologia di contratto i privati, persone fisiche o giuridiche non rientranti nel circuito finanziario delineato dal T.U.B., i Confidi minori ex art. 112 T.U.B., le Agenzie di prestito su pegno, le società fiduciarie, gli Enti di previdenza obbligatoria, le imprese assicuratrici. Tale scelta consente di contenere il rischio di fallimento dell’ente finanziatore, che, invece, in altri contratti come la rendita vitalizia, viene solitamente neutralizzato con la sottoscrizione di polizze assicurative collegate al finanziamento; così G. C. Platania, Il prestito vitalizio ipotecario, in Immobili e proprietà, 5/2017, 303 ss.

[7] La disciplina non dice nulla in merito all’entità del finanziamento, anche se è evidente che sull’ammontare del prestito incidono sia il valore dell’immobile – non solo al momento della stipulazione ma anche in riferimento a quello, futuro, del rimborso del prezzo – sia l’età del soggetto finanziato. Senz’altro un riferimento utile è costituito dal secondo comma dell’art. 38 T.U.B. che rinvia alla Delibera del CICR del 22 aprile 1995 e alle conseguenti istruzioni applicativa della Banca di Italia, le quali fissano il limite di finanziabilità in una misura pari all’80% del valore dei beni ipotecati.

[8] Le ragioni per le quali può essere stipulato il contratto di prestito vitalizio ipotecario possono essere le più varie, non trattandosi di un finanziamento di scopo (legale) vincolato, non essendo imposta nessuna specifica destinazione di utilizzo della somma concessa. Nella prassi, si è rilevato che, in Italia, il più delle volte il finanziamento in parola viene richiesto dagli over 60 con il precipuo scopo di supportare economicamente i figli (ad esempio nell’acquisto di un immobile di proprietà o per l’avvio di attività professionali); molto più di rado esso viene chiesto per l’integrazione del reddito patrimoniale dopo la cessazione dell’attività lavorativa oppure per l’estinzione di debiti pregressi. Tale aspetto differenzia notevolmente il nostro sistema da quello anglosassone, dove il ricorso a tale strumento finanziario è invece funzionale proprio al miglioramento della qualità di vita dell’ultrasessantacinquenne; così T. Rumi, La nuova disciplina del prestito vitalizio ipotecario, in I contratti, 10/2015, 937 ss.

[9] Come è stato rilevato da autorevole dottrina, il contratto in questione “si inserisce a pieno titolo in una strategia di smobilizzazione della ricchezza immobiliare a vantaggio della sua trasformazione in valori mobiliari, in sintonia con le esigenze di un capitalismo che individua nella proprietà smaterializzata la forma privilegiata di ricchezza” ; così A. Iuliani, Il prestito vitalizio ipotecario nel nuovo “sistema” delle garanzie reali, in Le nuove leggi civili commentate, 4/2016, 717 ss.

[10] Questo aspetto è proprio quello che differenzia tale contratto da quello affine della rendita vitalizia: difatti, sul punto, l’art. 1872 c.c. prevede che la rendita possa “essere costituita a titolo oneroso, mediante alienazione di un bene mobile o immobile […]”, diversamente da quanto accade invece nel prestito vitalizio ipotecario nel quale non si ha la cessione di un bene ma la costituzione di un’ipoteca.

[11] Così, Platania, ult. Op. cit. 305 ss., il quale rileva altresì che si tratta di un contratto formale, essendo necessaria la forma notarile – atto pubblico o scrittura autenticata – in quanto titolo utile per l’iscrizione dell’ipoteca.

[12] Le ipotesi previste al comma 12 – ossia il trasferimento della “proprietà o altri diritti reali o di godimento sull’immobile dato in garanzia” o il compimento di “atti che ne riducano significativamente il valore” – idonee a legittimare l’immediato rimborso da parte del finanziatore sono da configurarsi come vere e proprie cause di decadenza dal beneficio del termine in quanto idonee a determinare una diminuzione della garanzia originariamente offerta al creditore.

[13] In realtà, in via alternativa, il comma 12 quater prevede anche che “l’erede possa provvedere alla vendita dell’immobile, in accordo con il finanziatore, purché la compravendita si perfezioni entro dodici mesi”: anche questa ipotesi è volta a disincentivare il ricorso alle ordinarie procedure esecutive per la soddisfazione del credito.

[14] La norma prevede, altresì, sempre al comma 12 quater, che «trascorsi ulteriori dodici mesi senza che sia stata perfezionata la vendita, tale valore [ossia il valore di mercato originariamente periziato] viene decurtato del 15% per ogni 12 mesi fino all’avvenuta vendita”.

[15] La dottrina ha correttamente rilevato che, di fatto, il perito, benché alla sua nomina sia estraneo il soggetto finanziato, assume la veste dell’arbitratore, con la inevitabile conseguenza che la sua eventuale determinazione iniqua o erronea potrà essere impugnata in via giudiziaria ai sensi del primo comma dell’art. 1349 c.c.; così A. Donvito, Il prestito vitalizio ipotecario, in www.letteralegale.it.

[16] Il legislatore italiano aveva la necessità di individuare uno strumento idoneo a rendere opponibile agli aventi causa del soggetto finanziato l’esercizio del potere di vendita da parte del finanziatore e, in tal senso, ha optato per l’ipoteca, prendendo come riferimento il modello francese, nel quale però il creditore può scegliere alternativamente tra l’ordinaria esecuzione forzata ipotecaria e l’assegnazione dell’immobile, senza avere – come invece in Italia – il potere di vendere direttamente il bene. Nel prestito vitalizio ipotecario, l’ipoteca avrebbe quindi una funzione di natura cautelare invece che quella classica di garanzia. Proprio rilevando queste criticità, autorevole dottrina ha evidenziato forse sarebbe stato meglio operare una estensione dell’art. 2645 c.c. prevedendo la trascrizione del patto marciano – eventualmente anche con soli effetti obbligatori – relativamente ad un immobile, affiancato dal mandato a vendere concesso in favore del creditore, anche esercitabile post mortem; così A. Chianale, L’inutilità dell’ipoteca nel “prestito vecchietti”, in Notariato, 4/2016, 358 ss.

[17] Inizialmente la lex commissoria fu inserita come clausola accessoria nei contratti di compravendita: essa prevedeva che l’alienante potesse considerare il contratto come mai stipulato laddove l’acquirente non avesse corrisposto il prezzo pattuito entro un dato termine. In un secondo momento, oltre alla vendita, la lex commissoria iniziò poi ad essere apposta a tutti i negozi a prestazioni corrispettive, come ad esempio la promessa di matrimonio, il fitto, la permuta, la transazione o, ancora, il mutuo.

Ma nel diritto romano il suo utilizzo principale si rinvenne soprattutto in altri due istituti: nel pignus e nel cd. “pactum fiducia cum creditore”, ossia l’alienazione di un bene a favore del creditore con l’obbligo di restituzione in capo a quest’ultimo laddove il debitore avesse adempiuto il proprio debito.

Successivamente si registrò un’ulteriore evoluzione della “fiducia cum creditore” e la facoltà del creditore di trattenere, in caso di inadempimento del debitore, il bene alienato fu subordinata all’introduzione nel contratto di una specifica ed espressa clausola contemplante la lex commissoria.

La permanente liceità della lex commissoria, pur vincolata alla necessità di un suo esplicito inserimento come clausola contrattuale, venne meno nel 324 d.C. in seguito ad un editto dell’imperatore Costantino (contenuto nel Codex Theodosianum), con il quale intese uniformarsi ai nuovi orientamenti etico-religiosi che riprovavano moralmente la concessione di interessi usurari, quali quelli che si ritenevano potessero celarsi dietro il patto commissorio; cfr Cipriani, Patto commissorio e patto marciano. Proporzionalità e legittimità delle garanzie¸ Napoli, 2000, 35 e ss.

[18] Art. 2744 c.c.È nullo il patto col quale si conviene che, in mancanza del pagamento del credito nel termine fissato, la proprietà della cosa ipotecata o data in pegno passi al creditore. Il patto è nullo anche se posteriore alla costituzione dell’ipoteca o del pegno”; art. 1963 c.c.È nullo qualunque patto, anche posteriore alla conclusione del contratto, con cui si conviene che la proprietà dell’immobile passi al creditore nel caso di mancato pagamento del debito”.

[19] A tal proposito, il previgente codice civile del 1865 – in virtù di un’impostazione mutuata dal Code Civil francese – prevedeva tale divieto esclusivamente con riguardo al pegno (art. 1884 c.c.) e all’anticresi (art. 1894 c.c.).

[20] In tale categoria possono essere ricondotti una vasta gamma di schemi contrattuali accomunati dalla caratteristica di essere strumenti tipici piegati dalle parti alla realizzazione di fini di garanzia del credito: costituiscono esempi in tal senso la vendita con riserva della proprietà (artt. 1523 e ss.) o la vendita con patto di riscatto (artt. 1500 e ss.) in tutte le ipotesi in cui l’acquisto sia condizionato risolutivamente all’adempimento del venditore o, anche, nel caso in cui il riscatto del bene venduto sia subordinato non tanto alla restituzione del prezzo (come previsto dall’art. 1500 c.c.) ma piuttosto al rimborso di una somma ricevuta a titolo di mutuo in elusione di quanto disposto dall’art. 2744 c.c.

[21] In tal senso Cass. Civ., 30 marzo 1967, n. 689, in Giur. It., 1968, I, 52; Cass. Civ., 14 dicembre 1978, n. 5967, in Arch. Civ., 1979, 462; Cass. Civ., 10 marzo 1979, n. 1493, in Rep. Giur. It., 1979, voce “Patto Commissorio” n. 4; Cass. Civ., 26 gennaio 1980, n. 642, in Arch. Civ., 1980, 681; Cass. Civ., 12 novembre 1982, n. 6005, in Rep. Giur. It., 1982, voce “Patto Commissorio” n. 2.

[22] Detto in altri termini, se il trasferimento della proprietà era immediato, il patto era considerato valido; diversamente, laddove lo stesso avvenisse solamente al momento del verificarsi della condizione sospensiva, ossia al momento dell’inadempimento del debitore, la pattuizione era considerata nulla.

L’affermazione di liceità veniva sostenuta evidenziando come, ad esempio, la vendita con patto di riscatto presentasse sì profili di analogia ma non fosse del tutto identica al patto commissorio in quanto “la vendita trasferisce immediatamente la proprietà della cosa, mentre il patto commissorio la trasferisce solo in seguito ad inadempimento” del debito (in tal senso Trib. Avellino, 10 settembre 1957 in Temi Napoletana, 1958, I, 223). Ancora, secondo la Suprema Corte, il divieto di patto commissorio “non è applicabile, neppure in via analogica, alla vendita a scopo di garanzia accompagnata dal pactum de retrovendendo, in quanto il patto commissorio si ha solo quando il trasferimento della proprietà è sottoposto alla condizione sospensiva della mancata restituzione della somma nel termine stabilito” (cfr. Cass. Civ., 30 marzo 1967, n. 689, in Giur. It., 1968, I, 52).

[23] Sul punto, anche la migliore dottrina mise in evidenza l’irragionevolezza della predetta distinzione, obiettando che la diversità delle due ipotesi negoziali e, dunque, delle rispettive condizioni fosse più apparente che reale; cfr. Bianca, Il divieto del patto commissorio, ora in Ristampe della scuola di specializzazione in diritto civile dell’università di Camerino a cura di P. Perlingeri, Napoli, 2013, p.153 e ss.

[24] Il riferimento è alla pronuncia della Corte di Cassazione n. 3800 del 3 giugno 1983, la quale ha esteso il divieto del patto commissorio anche alle alienazioni risolutivamente condizionate, equiparandole alle alienazioni sospensivamente condizionate; cfr. Cass. civ, S. U., 3 giugno 1983, n. 3800, in Giur. It. 1984, I, 1648.

[25] A fini di esaustività occorre precisare che le scelte della Suprema Corte in ordine alle tecniche utilizzabili per pronunciare la nullità delle figure in questione non sono sempre state univoche: mentre la nullità dell’alienazione sospensivamente condizionata sancita da Cass. 3 giugno 1983, n. 3800 poggiava sulla “frode al divieto di patto commissorio” attraverso la realizzazione di un “procedimento simulatorio”, quella dichiarata in una decisione dei mesi successivi faceva leva, in termini più innovativi, su una violazione diretta dell’art. 2744 c.c. (cfr. Cass. Civ., 6 dicembre 1983, n. 7271, in Foro It., 1984, I, 426).

[26] Cass. civ, S. U., 3 aprile 1989, n. 1611, in Corr. Giur. 1989, 522; Foro It. 1989, I, 1428; Nuova giur. civ. comm., 1989, I, 357 e Cass. civ, S. U., 21 aprile 1989, n. 1907, in Corr. Giur. 1990, I, 205.

[27] Difatti, successivamente alla decisione del 1983, alcune pronunce delle singole Sezioni erano tornate all’orientamento precedente, argomentando a favore di una interpretazione letterale dell’art. 2744 c.c., la quale non consentirebbe di ricondurre i trasferimenti immediati all’ambito applicativo del divieto di patto commissorio; di contro altre decisioni valorizzavano invece il criterio funzionale sopra citato.

Tali oscillazioni interpretative furono dettate probabilmente dalle incertezze suscitate dall’impianto motivazionale della sentenza n. 3800 del 1983 che faceva leva sull’istituto della simulazione. In tal senso si segnalano: Cass. civ, 12 dicembre 1986, n. 7385, in Corr. Giur., 1987, 287; Foro It. 1989, I, 799 e Cass. Civ., 22 gennaio 1985 n. 242 in Riv. notar., 1985, II, 1352 contra Cass. civ, 18 maggio 1988, n. 3462, in Nuova giur. civ. comm., 1989, I, 283 e Cass. Civ., 11 gennaio 1988 n. 46 in Foro It. 1988, I, 387.

[28] Negli ultimi anni, con riferimento alla tematica del divieto di patto commissorio, la giurisprudenza ha prestato la propria attenzione al contratto di sale and lease back: in una recente pronuncia, la Cassazione, ribadendo il proprio consolidato orientamento, ha difatti ritenuto del tutto lecita la citata operazione negoziale non ravvisando alcuna violazione dell’art. 2744 c.c. laddove sia rispettata la proporzione tra credito concesso dal finanziatore e bene oggetto del finanziamento. Tale negozio è dunque da ritenersi, quale schema socialmente tipico, valido, ferma in ogni caso la possibilità per il giudice di merito di accertare, sulla base di una serie di indici sintomatici, che lo stesso sia in concreto impiegato al fine di eludere il divieto in parola (cfr. Cass. Civ., Sez . I., 28 gennaio 2015, n. 1625, in Riv. not., 2015, 182 ss.; Il fallimento, 7/2015, 791 ss.; in Giur. it., 2015, p. 2341 ss., con nota di V. Viti, Lease-back, patto commissorio e clausola marciana, e, inoltre, M. Natale, Lease-back e strutture utili di patto marciano, in Riv. dir. civ., 6/2015, 1595 ss.).

[29] Per una recente ricognizione sulla questione C. De Menech, Il patto marciano e gli incerti confini del divieto di patto commissorio, in I Contratti, 8-9/2015, 823 ss.

[30] La nascita dell’istituto viene ricondotta al seguente passaggio del Digesto: “Potest ita fieri pignoris datio hypothecaeve, ut, si intra certum tempus non sit soluta pecunia, iure emptoris possideat rem iusto pretio tunc aestimandam; hoc enim casu videtur quodammodo condicionalis esse venditio. Et ita divus Severus et Antoninus rescriperunt ” (D. 20, I, 16, 9).

[31] In particolare, questa peculiare tipologia di accordo poggerebbe la propria liceità in via indiretta su due norme del Codice Civile: si tratta della normativa dettata in tema di pegno irregolare – disciplinato dall’art. 1851 c.c. in materia di anticipazione bancaria – con riferimento alla cessione del credito a scopo di garanzia, nonché dell’art. 2803 c.c. che consente al creditore pignoratizio di trattenere soltanto la somma sufficiente al soddisfacimento delle proprie ragioni restituendo però l’eventuale eccedenza.

[32] Questo elemento è stato duramente criticato da attenta dottrina: si è difatti rilevato come “[…] in realtà il divieto del patto commissorio non tutela il patrimonio dell’obbligato, ma ne difende la libertà. Esso soccorre il debitore che, versando in una situazione di bisogno qualificato, rivelata dall’istituzione di una garanzia reale, trasferisce la proprietà sotto condizione di inadempimento, capziosamente indotto dalla prospettata eventualità di conservare il bene, o di recuperarlo, mercé il tempestivo adempimento. […] Il contesto del patto marciano non è differente. Anche qui, il debitore aliena un bene al creditore, sotto condizione di inadempimento, in funzione di garanzia”; in tal senso E. Carbone, Patto commissorio e patto marciano, in Libro dell’anno del diritto Treccani, 2014, su www.treccani.it.

[33] Cass. Civ, S. U., 9 maggio 2013, n. 10986, in Vita not., 2013, 719 ss.

[34] Secondo autorevole dottrina, in particolare. il fondamento della liceità del patto marciano consisterebbe proprio nel fatto che, mentre nel patto commissorio l’equivalenza tra importo del debito garantito e valore del bene è solo eventuale, nel patto marciano essa assurge a contenuto tipico del contratto, integrando un vero e proprio diritto del debitore alla restituzione dell’eccedenza; cfr. Bianca, op. ult, cit., p. 218 e ss.

[35] Sempre secondo la Suprema Corte, “la stima imparziale del valore del bene ad opera di un terzo e l’obbligo, da parte del creditore, di restituire l’eccedenza al debitore assumono il compito di escludere l’abuso e, con esso, l’operatività del divieto di patto commissorio e la conseguente illiceità”, così Cass. Civ., Sez . I., 28 gennaio 2015, n. 1625, già citata.

[36] Confronta Cass. Civ., S. U., 5 luglio 2011, n. 14650, in Mass. Giust. Civ., 2011, 1006.

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