Dante ad Auschwitz: la poetica di Dante nell’opera di Primo Levi
di Sabrina Peron
(sabrina.peron@gagisco.it)
Dei libri di Primo Levi (chimico, saggista, scrittore, testimone), colpisce il tono privo di retorica e di vittimismo che volutamente evita artifizi diretti a suscitare nel lettore la commozione.
Ma altresì colpisce la sua chiarezza, praticata attraverso una ricerca di economia linguistica, che porta ad una scrittura rapida, snella ed essenziale, scritta affinché “tutti comprendano”[1]. Ma che ha anche a che fare con la forma mentis di Levi, scienziato e chimico attento al giusto dosaggio degli elementi e al rigore del trattamento senza fronzoli dei mezzi linguistici[2].
Dietro tale solo apparente semplicità, il dramma personale e storico di Levi è però filtrato ripensato e rielaborato attraverso grandi modelli culturali, e in particolare l’opera di Dante[3].
Due sono gli aspetti più generali della poetica dantesca che si ritrovano nell’opera di Primo Levi e in particolare in “Se questo è un uomo” e, ancora più in particolare, nel capitolo “Il canto di Ulisse”. Anzitutto e principalmente il tema dell’inferno vi è poi il tema del viaggio
Tema dell’Inferno
L’arrivo all’inferno di Auschwitz, da parte di Levi è anticipato nel primo capitolo (Il viaggio), con l’attesa nel campo di raccolta di Fossoli, che una sorta di Limbo, dove i prigionieri sostano in “misero modo”, vivendo “sanza ‘nfamia e sanza lodo” (Inf. c. III, v. 33).
Il campo di Fossoli è un vestibolo infernale sul modello dantesco: durante il soggiorno vi è un’angosciosa sospensione dello spazio – tempo sull’orlo di un abisso doloroso[4], sul quale quando – prima della partenza – scese la notte “fu una notte tale che si conobbe, che occhi umani non avrebbero dovuto assistervi e sopravvivere” (SQU, 13).
Similmente l’arrivo ad Auschwitz richiama l’ingresso di Dante all’inferno, ma capovolgendolo.
Difatti, mentre da un lato, l’inferno di Dante “è quanto di più moralmente distante si possa trovare in un Lager nazista”[5], dall’altro lato, in Levi noteremo il “divario tra il rapporto quasi matematico di punizione e colpa nell’Inferno e l’arbitrarietà di Auschwitz”[6].
Ad esempio, se nel canto terzo dell’inferno è vero che sul “sommo d’una porta”[7] vi si leggono parole “oscure e minacciose”: “per me si va ne la città dolente, per me si va ne l’etterno dolore, per me si va tra la perduta gente”[8]; è altresì vero che vi si legge anche: “giustizia mosse il mio alto fattore, fecemi la divina podestate, la somma sapienza e ’l primo amore”[9].
Nell’inferno quindi, ciò con cui “Dante si rapporta non è l’orrore del male, ma la giustizia divina (…), vista negli esiti prodotti dalla sua negazione”[10].
Ma se l’inferno dantesco risponde ad un ordine divino ad un “alto fattore” di giustizia; non così l’inferno dei Lager il cui cancello (la “porta di schiavitù”[11]) è sormontato da “tre parole di derisione Arbeit Mach Frei”[12], parole il cui ricordo ancora “percuote i sogni” di Levi[13], che preannunciano l’ingresso nel mondo del caos e del nulla[14], l’ingresso nel “cuore di tenebra del Novecento” [15].
Ma questo cuore di tenebra – contrariamente all’inferno di Dante che chiaramente ammonisce “per me si va per la città dolente (…) lasciate ogne speranza voi che ch’entrate”[16] – sin dall’inizio si preannuncia beffardamente enigmatico (“incomprensibile e folle”[17], scrive Levi).
I prigionieri vengono traghettati da un “soldato tedesco irto d’armi” che – novello Caronte – li scorta nel campo, ma costui, invece di gridare “guai a voi anime prave”[18], comanda cortesemente “ad uno ad uno in tedesco e in lingua franca se abbiamo denaro od orologi da cedergli: tanto dopo non ci servono più. Non è un comando o un regolamento questo: si vede bene che è una piccola iniziativa privata del nostro caronte[19] [attenzione Levi lo scrive con la c minuscola, egli quindi per Levi non merita la maiuscola, si noti inoltre che nella Divina Commedia, Dante contrappone la “violenza autorizzata del nocchiero a quella squallidamente velleitaria dei dannati”[20]].
L’assoluta arbitrarietà di Auschwitz la si ritrova nella selezione iniziale che decide chi viene sommerso e chi va salvato al momento della discesa dai vagoni: “Una decina di SS stavano in disparte, l’aria indifferente, piantati a gambe larghe. A un certo momento, penetrarono fra di noi, presero a interrogarci rapidamente, uno per uno, in cattivo italiano. Non interrogavano tutti, solo qualcuno. Quanti anni?Sano o malato? E in base alla risposta ci indicavano due diverse direzioni. Tutto era silenzioso come in un acquario (…) sembravano semplici agenti d’ordine. Era sconcertante e disarmante. Qualcuno osò chiedere dei bagagli: risposero bagagli dopo; qualche altro non voleva lasciare la moglie: dissero dopo di nuovo insieme; molte madri non volevano separarsi dai figli: dissero bene, ben stare con figlio. Sempre con la pacata sicurezza di chi non fa che il suo ufficio di ogni giorno”[21].
E ancora una volta viene in mente il parallelismo (inverso) con un’altra figura dantesca come Minosse: “Stavvi Minos orribilmente ringhia: / esamina le colpe ne l’intrata / giudica e manda secondo ch’avvinghia. / Dico che quando l’anima mal nata / li vien dinanzi, tutta si confessa; / e quel conoscitor de le peccata / vede qual loco d’inferno è da essa / cingesi con la coda tante volte / quantunque gradi vuol che giù sia messa”[22].
Minosse, conoscitor de le peccata, ascolta la confessione, l’esamina e infine giudica dove inviare i dannati; non così la selezione ad Auschwitz. Scrive Levi, “in quelle scelta rapida e sommaria di ognuno di noi era stato giudicato se potesse o no lavorare utilmente per il Reich” e poi aggiunge “non sempre questo pur tenue principio di discriminazione in abili e inabili al lavoro fu seguito” successivamente fu adottato il “sistema più semplice di aprire entrambe le portiere dei vagoni, senza avvertimenti né istruzioni ai nuovi arrivati. Entravano in campo quelli che il caso faceva scendere da un lato del convoglio; andavano al gas gli altri”[23]. Uguale terribile causalità la si ritrova nelle selezioni successive[24]: “qui davanti alle due porte sta l’arbitro del nostro destino, che è un sottufficiale delle SS (…). Ognuno di noi esce nudo (…) nel freddo dell’aria di ottobre, deve fare di corsa i pochi passi fra le due porte (…) consegnare la scheda alla SS e rientrare per la porta del dormitorio. La SS, nella frazione di secondo fra due passaggi successivi, con uno sguardo di faccia e di schiena giudica della sorte d’ognuno, e consegna a sua volta la scheda all’uomo alla sua destra o all’uomo alla sua sinistra, e questo è la vita o la morte di ciascuno di noi. In tre o quattro minuti una baracca di duecento uomini è fatta e nel pomeriggio l’intero campo di dodicimila uomini”[25].
Tuttavia, così come nell’inferno di Dante è ampia l’entrata che accoglie i dannati (O tu che vieni al doloroso ospizio / disse Minos a me quando mi vide / (…) guarda com’entri e di cui tu ti fide / non t’inganni l’ampiezza de l’intrare”[26]); anche per i sommersi dei Lager è “una sola e ampia la via della perdizione, le vie della salvazione sono invece molte, aspre ed impensate”[27].
Similmente inoltre ritroviamo in Levi la descrizione di Dante delle “diverse lingue, orribili favelle, / parole di dolore, accenti d’ira, / voci alte e fioche, e suon di man con elle / facevano un tumulto il qual s’aggira / sempre in quell’aura sanza tempo tinta / come la rena quando turbo spira”[28]. Così descrive difatti Levi, ne I sommersi e i salvati, i primi giorni nel Lager: “un film sfuocato, frenetico, pieno di fracasso e di furia privo di significato: un tramestio di personaggi senza nome né volto annegati in un continuo assordante rumore di fondo, su cui tuttavia la parola umana non affiorava”[29].
L’arrivo al campo di prigionia definito la giornata di “antinferno” è descritto nel capitolo secondo Sul fondo.
I prigionieri si trovano in una “camera vasta e nuda debolmente riscaldata” hanno sete “il debole fruscio dell’acqua nei radiatori” li rende feroci: sono quattro giorni che non bevono. “Eppure c’è un rubinetto: sopra un cartello, che dice che è proibito bere perché l’acqua è inquinata”. Per Levi questo è l’inferno: loro “sanno che moriamo di sete e ci mettono in una camera e c’è un rubinetto e Wassertrinken verboten: questo è l’inferno. Oggi, ai giorni nostri, l’inferno deve essere così una camera grande e vuota e noi stanchi stare in piedi e c’è un rubinetto che gocciola acqua e non si può bere e noi aspettiamo qualcosa di certamente terribile e non succede niente e continua a non successe niente (…) è come esser già morti”[30] … ma non lo sono, sono “sul fondo”[31]: su un “fondo” atrocemente reale (questa, prima ancora che letteratura, è realtà “questo è stato”[32]) e che rimanda al “luogo dantesco, al pozzo infernale sui cui fondo è conficcato orribilmente Lucifero”[33].
Dunque l’intero capitolo Sul fondo si dispone entro due constatazioni lapidarie e dantesche: la prima che apre la descrizione (“questo è l’inferno”); e l’altra che la chiude (“eccomi quindi sul fondo”). Si noti che nella Commedia la parola “fondo” indica il punto più basso e di maggior pena dell’inferno[34]. Ad esempio si legga nel Canto VI, 84: “Ei son tra l’anime più nere; diverse colpe giù le grava al fondo”.
E che i prigionieri (e noi lettori) siano ormai sommersi sul fondo, di un luogo infernale in cui viene negata ai prigionieri la loro stessa natura umana[35], Levi lo chiarisce ulteriormente con la narrazione del seguente episodio : “spinto dalla sete, ho adocchiato, fuori di una finestra un bel ghiacciolo a portata di mano. Ho aperto la finestra, ho staccato il ghiacciolo, ma subito si è fatto avanti uno grande e grosso che si aggirava là fuori, e me lo ha strappato brutalmente. – Warum? – (gli ho chiesto nel mio povero tedesco. – Hier ist kein Warum, – (qui non c’è perché), mi ha risposto, ricacciandomi dentro con uno spintone”[36]. Ed a suggello definitivo dell’identificazione del luogo in cui si trovano ora i prigionieri ecco una altra citazione dantesca dal Canto XXI, 48: “la spiegazione è ripugnate e semplice: in questo luogo è proibito tutto non già per riposte ragioni ma perché a tale scopo il campo è stato creato. Se vorremo viverci, bisognerà capirlo presto e bene: … «Qui non ha luogo il Santo Volto / Qui si nuota altrimenti che nel Serchio!»”[37] .
Si noti poi che mentre Dante quanto più s’innalza verso Dio, verso il Bene, quanto più è privo di parole : (“Nel ciel che più de la sua luce prende / fu’ io, e vidi cose che ridire / né sa né può chi di là sù discende”[38]); Levi, al “contrario, ammutolisce quanto più sprofonda nel Male, nell’inferno”[39]. In Se questo è un uomo si legge difatti: “Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere quest’offesa, la demolizione dell’uomo”[40], perché «noi diciamo “fame”, diciamo “stanchezza”, “paura” e “dolore”, diciamo “inverno” e sono altre cose. Sono parole libere, create e usate da uomini liberi»[41].
Dunque, mentre Dante perde la parola quanto più si eleva; Levi la perde quanto più sprofonda e questa differenza in realtà rivela un’identità. In entrambi i casi infatti la perdita della parola corrisponde al raggiungimento della destinazione: per Dante l’inferno è solo una tappa (la prima) che egli attraversa per uscirne, ascendendo, verso il Paradiso; per Levi Auschiwitz è un inferno dal quale non escono neppure i salvati, difatti l’offesa per Levi ha natura insanabile e dilaga come contagio[42].
Queste ultime considerazioni ci consentono ora di toccare il secondo tema che è quello del viaggio.
Il tema del viaggio
Il viaggio che Dante intraprende è un viaggio guidato tutto sotto il segno della Provvidenza, di cui si conosce il percorso e la meta, e che Dante può compiere in tutta sicurezza: è un viaggio divino che risponde ad un piano e ad una logica divina.
Durante il suo andare Dante incontra Ulisse (Canto XVI) e ne descrive – anche con ammirazione – la traiettoria umana, tutta umana, del suo ultimo viaggio.
Nel canto XVI (ottava bolgia), Ulisse racconta l’avventura del proprio viaggio che è l’esatto opposto del viaggio di Dante: Ulisse credendo esclusivamente sulla coscienza del proprio valore e confidando unicamente sulla propria capacità e ansia di conoscenza, intraprende un viaggio definito da lui stesso folle; il folle volo di Ulisse è esattamente all’opposto del viaggio di Dante intrapreso sotto assistenza della provvidenza e con la chiara cognizione che questo viaggio si basa non sulle proprie forze ma sul piano divino[43].
Entrambi compiono un percorso in linea retta: ma “Ulisse su in piano orizzontale di espansione, [ma che poi porterà all’abisso] Dante su un piano verticale di ascesa” [44]. Del resto, mentre Dante è un pellegrino, che parte fisicamente dalla “selva oscura per finire il suo viaggio nel luogo al quale l’uomo era originariamente destinato, nel Paradiso. Quello di Dante rappresenta pertanto un ritorno a casa, dell’uomo prima che del poeta”[45]; l’Ulisse dantesco, invece, è un esploratore che mosso unicamente dalla sua sete di conoscenza (“l’ardore / ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto/ e de li vizi umani e del valore”) ricerca l’ignoto (“misi me per l’alto mare aperto”).
Ulisse, quindi, è il simbolo dell’ansia di conoscenza dell’uomo che lo incalza a portarsi al di là dei limiti posti da Dio (e dalla ragione). Proprio per questo, per Dante questo viaggio ha qualcosa di sacrilego, immorale e … folle (“de’ remi facemmo ali al folle volo”) e per questi motivi i due viaggi si differenziano nella loro conclusione: Dante, al termine del passaggio nei tre regni ultraterreni, giungerà infine ad una vista nova[46] che gli donerà la salvezza dell’anima; Ulisse invece verrà inghiottito dalle tenebre infernali e punito per aver sfidato i limiti imposti e la volontà di Dio[47].
Accanto – ed oltre – questi due viaggi, sta il viaggio di Primo Levi verso l’Anus Mundi.
Il suo è un viaggio con una direzione ed una destinazione spaziale verso una località geografica ben precisa, Auschwitz, ma è “anche un viaggio sul fondo dell’uomo”: l’anus mundi, appunto, “l’abisso di malvagità, quell’inferno indecifrabile che appartiene alla nostra storia”[48]. Viaggio che a differenza di Dante, che avrà sempre una sicura guida al suo fianco, Levi deve percorrere da solo sin dai primi incerti passi all’interno l’inferno del Lager: “la maggior parte dei ricorsi dei reduci (…) incomincia così (…): l’aggressione non prevista e non compresa, da parte di un nemico nuovo e strano, il prigioniero-funzionario, che invece di prenderti per mano, tranquillizzarti, insegnarti la strada, ti si avventa addosso urlando in una lingua che tu non conosci , e ti percuote sul viso”[49].
Durante il suo viaggio, Levi incontra Jean, il Pikolo del Kommando di Levi, “uno studente alsaziano”, che benché “avesse già venticinque anni era il più giovane Haftling del Kommando Chimico”[50]. A Jean (“che era un Pikolo eccezionale (…) scaltro e fisicamente robusto”, ma “insieme mite e amichevole”[51]) “piace l’Italia e vorrebbe imparare l’italiano[52]” ecco dunque che Levi racconta nel capitolo Il canto di Ulisse il suoi tentativi di insegnare l’italiano a Pikolo durante il trasporto del rancio.
Scrive Levi:
“Il canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in mente: ma non abbiamo tempo di scegliere, quest’ora già non è più un’ora. Se Jean è intelligente capirà (…). … Chi è Dante. Che cosa è la Commedia (…). Come è distribuito l’Inferno, cosa è il contrappasso.(…). Jean è attentissimo, ed io comincio, lento e accurato:
Lo maggior corno della fiamma antica
Cominciò a crollarsi mormorando,
Pur come quella cui vento affatica.
Indi, la cima in qua e in là menando
Come fosse la lingua che parlasse
Mise fuori la voce, e disse: Quando…
Qui mi fermo e cerco di tradurre. Disastroso: povero Dante e povero francese! (…) E dopo “Quando”? Il nulla, Un buco della memoria. “Prima che sì Enea la nominasse”. Altro buco. Viene a galla qualche frammento non utilizzabile: “… la pietà Del vecchio padre, né’l debito amore Che doveva Penelope far lieta …” sarà poi esatto?
… Ma misi me per l’alto mare
Di questo sì, di questo sono sicuro, sono in grado di spiegare a Pikolo, di distinguere perché “misi me” non è “je me mis”, è molto più forte e più audace, è un vincolo infranto, è scagliare se stessi al di là della barriera, noi conosciamo bene questo impulso (…).
“mare aperto”. “Mare aperto”. So che rima con “diserto” (…) , ma non rammento più se viene prima o dopo. E anche il viaggio, il temerario viaggio al di là delle colonne d’Ercole, che tristezza, sono costretto a raccontarlo in prosa: un sacrilegio. Non ho salvato che un verso, ma vale la pena di fermarcisi:
… Acciò che l’uom più oltre non si metta.
“Si metta”: dovevo venire in Lager per accorgermi che è la stessa espressione di prima, “ e misi me”. (..). Quante altre cose ci sarebbero da dire (..). Ho fretta, una fretta furibonda.
Ecco, attento Pikolo, apri gli occhi e la mente, ho bisogno che tu capisca:
Considerate la vostra semenza:
Fatti non foste a viver come bruti,
Ma per seguir virtute e conoscenza.
Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono.
Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo bene. O forse è qualcosa di più: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle.
Li miei compagni fec’io sì acuti…
… e mi sforzo, ma invano, di spiegare quante cose vuol dire questo “acuti”. Qui ancora una lacuna, questa volta irreparabile. “… Lo lume era di sotto della luna” o qualcosa di simile; ma prima?… Nessuna idea, “keine Ahnung” come si dice qui.
(…)
Darei la zuppa di oggi per sapere saldare “non ne avevo alcuna” col finale. Mi sforzo di ricostruire per mezzo delle rime, chiudo gli occhi, mi mordo le dita: ma non serve, il resto è silenzio (…) siamo arrivati alla cucina, bisogna concludere:
Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque,
alla quarta levar la poppa in suso
E la prora ire in giù, come altrui piacque…
Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo “come altrui piacque”, prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del Medioevo, del così umano e necessario e pure inaspettato anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qu i…
Siamo oramai nella fil per la zuppa, in mezzo alla folla sordida e sbrindellata dei porta-zuppa degli altri Kommandos. I nuovi giunti ci si accalcano alle spalle. –Kraut und Ruben?- Kraut und Ruben-. Si annuncia ufficialmente che oggi la zuppa è di cavoli e rape: -Choux et navets.- Kaposzta es repark.
Infin che’l mar fu sopra noi rinchiuso”.
Ecco quindi che sul fondo dell’Anus Mundi, dove i prigionieri vivono con gli “occhi erano legati al suolo dal bisogno di tutti i minuti”[53], Levi compie un folle volo e due prigionieri osano ragionare di virtude e conoscenza, osano prendere coscienza che fatti non furon per viver come bruti e, soprattutto, osano farlo con le stanghe della zuppa sulle spalle, trasportando per un chilometro – come bestie da soma – la pesante marmitta di cinquanta chili.
Levi doveva compiere il suo viaggio sino ad Auschwitz per cogliere la similitudine tra il versetto 100 “misi me per l’alto mare aperto” e il verso 109 “acciò che l’uom più oltre non si metta”.
Levi doveva giungere sino ad Auschwitz per comprendere che quel loro patire non esauriva la loro esistenza, il cui significato risponde ad un fine superiore che trascende dall’atroce insensatezza del Lager.
Ecco allora che il verso “fatti non foste per viver come bruti ma per seguire virtute e conoscenza” , viene sentito “come la voce di Dio”, che comanda di non vivere come bruti, di non perdere la dignità umana anche quando si è schiacciati sul fondo greve di quel luogo in cui si cercò di compiere «l’orrendo esperimento» di modificare la natura umana, trasformando l’uomo in qualcosa che «neppure gli animali sono», una sorta di «sintesi tra nonuomo e sottouomo»[54] (e non a caso il titolo del libro di Levi è Se questo è un uomo).
Questo è per l’appunto il folle volo di Levi, che però si differenzia da quello di Ulisse: perché Ulisse supera le colonne d’Ercole infrangendo il superiore divieto morale posto al confine dell’umano[55] e per questo è destinato agli abissi com’altrui piacque. Levi invece cerca di infrangere la legge che vige nel Lager che li vuole ridotti a sinistre marionette con il “capo spenzolato in avanti e le braccia rigide”[56], ma anche questo novello Ulisse, appena travalicate le quelle che sono le sue colonne d’Ercole, viene sommerso come ad altrui piacque (e qui è un altrui tutto ed interamente umano che arbitrariamente dispone del destino di altri uomini).
Come altrui piacque e necessario che Pikolo comprenda: loro sono lì come altrui piacque, è questo il perché del loro destino ad Auschwitz, compreso questo il mare – ancora una volta – si rinchiude.
Ma Levi è anche è soprattutto un sopravvissuto un salvato, un testimone e allora se Ulisse vuole divenir esperto “de li vizi umani e del valore”, Levi nel Lager è diventato esperto nel «misurare gli uomini»[57], del Lager è diventato “l’implacabile agrimensore”, il tassonomista rigoroso[58] che si muove nell’ambito di un’oggettività, che vuole essere scevra dal rancore – per non alterare la capacità di giudizio – ma che non va per ciò stesso confusa con un perdono facile ed assolutorio[59]. Per questo motivo Levi è stato definito un «Darwin dei campi della morte: non un Virgilio dell’inferno tedesco, ma il suo interprete scientifico»[60]. Da qui dunque lo stile costantemente teso verso la precisione e l’esattezza espressiva, che rifugge ogni ambiguità, di cui si è parlato all’inizio. Uno stile come potrebbe essere quello di un «naturalista che si trova trasportato in un ambiente mostruoso, ma nuovo, mostruosamente nuovo»[61], del quale prova una volontà instancabile, una speranza permanente di capire, ciò che se non può essere compreso, non può neppure essere dimenticato o rimosso. In particolare ne I sommersi e i salvati, Levi documenta, con una scrittura volutamente scarna, ma anche precisa ed attenta a «che le cose vengano alla luce nude così come sono state, che non vengano alterate da parole prepotenti»[62], perché all’insensatezza della nera Babele dei Lager è necessario opporre la limpidezza del verbo, la chiarezza espressiva, la trasparenza del significato[63], unico modo questo per venire a capo del fatto che se Auschwitz era caos assoluto, esso – al contempo – era anche ordine assoluto, coatto e privo di smagliature: un universo regolato da una «follia geometrica»[64].
Levi, dunque, con un phatos discorsivo e senza riparo, racconta fatti al limite dell’indicibile per impedire l’assassinio postumo della memoria stessa dell’offesa e per ricordarci che è avvenuto, quindi, può accadere di nuovo.
Infine c’è il viaggio di Levi, descritto ne La tregua: La tregua è l’Odissea di Primo Levi, il libro sul viaggio a ritroso da Auschwitz, che Levi fece dopo la liberazione del ‘45 da parte dell’Armata Rossa, per tornare nella sua Torino: un viaggio lungo 35 giorni attraverso le rovine dell’Europa liberata.
La prova del ritorno alla vita è carica d’angoscia, dopo “la tregua” dei mesi trascorsi in viaggio che sono stati “una parentesi di illimitata disponibilità, un dono provvidenziale ma irripetibile del destino”, tra l’inferno del Lager e il ritorno ad una “normalità” negata. Negata perché non ha mai cessato di visitarlo un “sogno pieno di spavento”, dove Levi “è di nuovo in Lager” e “nulla” è “vero all’infuori del Lager”, il resto è solo una “breve vacanza, o inganno dei sensi, sogno”, e ben presto s’ode “risuonare una voce ben nota; una parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa. E’ il comando dell’alba in Auschwitz, una parola straniera, temuta e attesa: alzarsi Wstawac”[65].
[1] A. Zargani, “Primo Levi molto più che un testimone”, in www.pubblica.istruzione.it/shoah/eventi/aldo_zargani.pdf
[2] S. Novelli, “Primo Levi, La lingua dell’orrore”, in www.treccani.it.
[3] E. Zinato, “Dante e Levi, in www.radiobue.it.
[4] E. Zinato, “Dante e Levi, in www.radiobue.it.
[5] V. Traversi, Per dire l’orrore, in Dante – Rivista internazionale di studi su Dante Alighieri, 2008, 109.
[6] A. Altichieri, Gli inglesi? Pazzi per Proust e Dante, in Corriere della Sera, 08.12.1999).
[7] A. Dante, Commedia – Inferno, Garzanti, 1994: Inf., III, 9.
[8] Inf., III, 3.
[9] Inf., III, 6.
[10] M. Malaguti, Dante, http://www.disf.org/Voci/127.asp.
[11] P. Levi, La tregua, Einaudi, 1999, 162.
[12] P. Levi, La tregua, cit. 162.
[13] P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, 1999, 19.
[14] C. Cases, L’ordine delle cose, Primo Levi un’antologia critica, Einaudi, 1997, 14.
[15] V. Traversi, cit., 111.
[16] Inf., III, 1 e 9.
[17] P. Levi, Se questo è un uomo, cit., 18.
[18] Il passo completo di Dante è: “ed ecco venir noi per nave un vecchio, bianco per antico pelo, gridando: “guai a voi anime prave! Non insperate mai di veder lo cielo i’ vengo a menarvi a l’altra riva ne le tenebre etterne, in caldo e’n gelo” (Inf., III, 82).
[19] P. Levi, Se questo è un uomo, cit., 18.
[20] Pasquini – Quaglio, Commedia Inferno, commento, Garzanti, 1994, 30. Ecco il passo di Dante: “Bestemmiavano Dio e lor parenti, l’umana spezie e ‘l loco e ‘l tempo e ‘l seme di lor semenza e di lor nascimenti (…). Caron demonio, con occhi di bragia loro accennando tutte raccoglie, batte col remo qualunque s’adagia” (Inf., III,103-104 e 109 – 111).
[21] P. Levi, Se questo è un uomo, cit., 16 – 17.
[22] Inf., IV, 4 – 11.
[23] P. Levi, Se questo è un uomo, cit., 17.
[24] Le “selezioni si sentono arrivare Selekcja: la ibrida parola latina e polacca di sente una volta, due volte, molte volte (…) dapprima non la si individua, poi si impone all’attenzione, infine ci perseguita” (P. Levi, Se questo è un uomo, cit., 110).
[25] P. Levi, Se questo è un uomo, cit., 114.
[26] Inf., V 16 – 20
[27] P. Levi, Se questo è un uomo, cit., 82.
[28] Inf., III, 25 – 30.
[29] P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, 1986, 72. Peraltro si noti come in quest’opera di Primo Levi si trova una forte analogia con La storia della Colonna Infame di Alessandro Manzoni.
Nel cap. 5 del la Colonna Infame Manzoni scrive che “quell’infernale sentenza” dopo la sua lettura portava “que’ disgraziati”, a “confermare, anzi allargare le loro confessioni”, cosicchè la “speranza non ancora estinta di sfuggir la morte, e una tal morte (…), li fecero, a ripeter le menzogne di prima, e nominar nuove persone”. Il risultato è spaventosamente aberrante perché in tal modo que’ giudici riuscirono “non solo a fare atrocemente morir degl’innocenti, ma, per quanto dipendeva da loro, a farli morir colpevoli” (A. Manzoni, La storia della Colonna infame, Biblioteca della Pleiade, 1995).
Similmente Levi scrive: attraverso i Sonderkommando il nazionalsocialismo ha spostato sugli altri, sulle “vittime, il peso della colpa, talché a loro sollievo non rimanesse neppure la consapevolezza di essere innocenti”, le ha legate allo stesso carro, vincolate dal “vincolo immondo della complicità imposta” (P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., 37-38).
[30] P. Levi, Se questo è un uomo, cit., 20. A tale proposito si leggano anche le pagine di Kertész: «… Giovanotto, non vuoi riferire le tue esperienze? (…) Ho voluto sapere: “Ma di che cosa?”. “Dell’inferno dei Lager”, mi ha risposto (…). “Non dobbiamo forse immaginare il campo di concentramento come un inferno?” mi ha chiesto, gli ho detto che ce lo si poteva immaginare come si voleva: quanto a me, io potevo solo immaginarmi il campo di concentramento, perché entro certi limiti lo conoscevo, mentre l’inferno no» (I. Kertész, Essere senza destino, Feltrinelli, 2002, 208).
[31] P. Levi, Se questo è un uomo, cit., 31.
[32] Non a caso nella poesia posta in epigrafe a La Tregua, Levi sintetizza la sensazione che “solo ciò che è accaduto ad Auschwitz è reale, e il ritorno a casa, l’abbraccio dei cari il cibo, il calore sono solo sogno, inganno dei sensi, una tregua” (V. Traversi, cit., 120): “Sognavamo notti feroci / Sogni densi e violenti / Sognati con anima e corpo: / Tornare; mangiare; raccontare. / Finché suonava breve sommesso / Il comando dell’alba: / «Wstawac» / E si spezzava in petto il cuore. / Ora abbiamo ritrovato la casa, / Il nostro ventre è sazio, / Abbiamo finito di raccontare. / E’ tempo. Presto udremo ancora / Il comando straniero: «Wstawac»” .
[33] Si ricorda inoltre che l’Inferno dantesco ha una forma a cono rovesciato che degrada in nove cerchi (i primi cinque formano “l’alto inferno” gli altri il “basso inferno”) sul cui fondo si trova conficcato Lucifero.
[34] V. Traversi, cit., 119.
[35] Non a caso il titolo del libro di Levi è Se questo è un uomo. E’ stato inoltre osservato che campi di sterminio, non servirono solo ad umiliare, degradare e sterminare, ma furono il luogo in cui si cercò di compiere «l’orrendo esperimento» di modificare la natura umana, trasformando l’uomo in qualcosa che «neppure gli animali sono», in una sorta di «sintesi tra nonuomo e sottouomo» (così, H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni comunità, 1999, 600 e J. Amery, Un intellettuale ad Auschwitz, Bollati – Boringhieri, 1993, 118). In questo senso per Levi i Lager, sono stati una «gigantesca esperienza biologica e sociale. Si rinchiudano fra i fili spinati migliaia di individui diversi per età, condizione, origine, lingua, cultura e costumi: (…) è quanto di più rigoroso uno sperimentatore avrebbe potuto istituire per stabilire che cosa sia essenziale e che cosa acquisito nel comportamento dell’animale-uomo di fronte alla lotta per la vita» (P. Levi, Se questo è un uomo, cit., 79). Nei Lager, dunque, entra in gioco non (solo) la sofferenza (di cui come dice Arendt ve ne è sempre stata troppa sulla terra), ma la natura umana in quanto tale: i Lager i laboratori al cui interno è stata tentata la realizzazione della «nientificazione pianificata dell’umano», in grado di snaturare sia la morte che la vita (cfr. S. Forti, La filosofia di fronte all’estremo – Introduzione, in AA.VV., La filosofia di fronte all’estremo – Totalitarismo e riflessione filosofica, a cura di S. Forti, Einaudi, 2004, IX). Al riguardo si veda, anche: V. Havel, Storie e totalitarismo, in La filosofia di fronte all’estremo, cit., 142, il quale analizzando i meccanismi di una politica che avendo già assoggettato e disumanizzato l’esistenza non ha più bisogno del terrore per confiscare le singole vite, denuncia quella «sorta di strana nientificazione sociale e storica, collettivamente letale – o, più esattamente mortifera. Una nientificazione che snatura la morte in quanto tale e, di conseguenza, la vita in quanto tale: la vita dell’individuo si riduce al funzionamento uniforme di un pezzo qualsiasi di una grande macchina, e la sua morte equivale all’esclusione del medesimo dal processo di lavorazione»).
[36] P. Levi, Se questo è un uomo, cit., 25.
[37] P. Levi, Se questo è un uomo, cit., 25. Il passo di Dante invece è il seguente: “Quel s’attuffò, e tornò su convolto; / ma i demon che del ponte avean coperchio, / gridar: «Qui non ha loco il Santo Volto! / Qui si nuota altrimenti che nel Serchio! / Però, se tu non vuo’ di nostri graffi, / non far sopra la pegola soverchio» (Inf., XXI, 46 – 51).
[38] A. Dante, Commedia – Inferno, Garzanti, 1994: Par., I, 4-6
[39] V. Traversi, cit., 122.
[40] P. Levi, Se questo è un uomo, cit., 20.
[41] P. Levi, Se questo è un uomo, cit., 23 e 110. Anche come nella poesia di Celan, Gennaio («Venisse, / venisse un uomo, / venisse al mondo un uomo, oggi / con la barba di luce che fu / dei patriarchi: potrebbe: / se parlasse di questo / tempo, solamente / bal – bettare / conti-, conti- /-nuamente, mente» (P. Celan, Poesie, Meridiani Mondadori, 1998), ritroviamo il balbettio racconto, della testimonianza, disperatamente consapevole che la lingua manca di parole per esprimere l’offesa subita» (F. Sossi, Nel crepaccio del tempo, Marcos Y Marcos, 1998, 108). Il balbettio di una parola, inudibile ed impronunciabile, che «venne attraverso la notte» e «voleva luccicare, luccicare» (P. Celan, Stretto, in Poesie, cit.,101: «… Venne, venne. / Venne una parola, venne, / venne attraverso la notte, / voleva luccicare, luccicare»).
[42] Offesa che ha natura insanabile e dilaga come un contagio. Scrive Levi a tale proposito che è «stolto pensare che la giustizia umana l’estingua, perché essa è un’inesauribile fonte di male» che spezza il corpo e l’anima delle vittime, «li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale come negazione, come stanchezza, come rinuncia» (P. Levi, La tregua, cit., 158). Per Levi Quello che è accaduto nei campi di sterminio è un «abominio, che nessuna preghiera propiziatoria, nessun perdono, nessuna espiazione dei colpevoli, nulla insomma che sia in potere dell’uomo di fare, potrà risanare mai più» (P. Levi, Se questo è un uomo, cit., 116). L’offesa, dunque « è insanabile» e che le «Erinni alle quali bisogna pur credere, non travagliano solo il tormentatore (se pure lo travagliano, aiutate o no dalla punizione umana), ma perpetuano l’opera di questo negando la pace al tormentato» (P. Levi, I sommersi e i salvati, cit.,14).
[43] P. Baldassarre, Il tema del viaggio nell’inferno dantesco, in www.radiobue.
[44] J.M. Lotman, Ulisse e Dante, in http://www.iisalessandrini.it/progetti/visioni/lotman_ulisse_e_dante.htm.
[45] P. Boitani, Il mito del viaggio, in http://www.emsf.rai.it/grillo/trasmissioni.asp?d=669.
[46] Par., XXXIII, 145.
[47] V. Traversi, cit., 116.
[48] G. Tesio, Primo Levi tra ordine e caos, in AA.VV., Primo Levi: un’antologia della critica, cit., 40; si veda anche C. Segre, I romanzi e le poesie, in AA.VV., Primo Levi: un’antologia della critica, cit., 109: «appassionato di libri di viaggio, da Marco polo a Conrad, Levi era proprio l’opposto dell’amante dell’avventura. E’ la sua sorte che lo ha trascinato nell’avventura estrema, verso i limiti dell’umano e della morte».
[49] P. Levi, I Sommersi e i salvati, cit., 28.
[50] P. Levi, Se questo è un uomo, cit., 98. “bisogna sapere che la carica di Pikolo costituisce un gradino già assai elevato nella gerarchia delle Prominenze: il Pikolo (che di solito non ha più di diciassette anni) non lavora manualmente, ha mano libera sui fondi della marmitta del rancio e può stare tutto il giorno vicino alla stufa”.
[51] P. Levi, Se questo è un uomo, cit., 99. Si noti la contrapposizione nella descrizione di Jean con quella poche righe dopo del Kapò: “Alex, il Kapo (…) aveva mantenuto tutte le sue promesse. Si era dimostrato un bestione violento e infido, corazzato di solida e compatta ignoranza e stupidità, eccezion fatta per i l suo fiuto e la sua tecnica di aguzzino esperto e consumato”
[52] P. Levi, Se questo è un uomo, cit., 100.
[53] P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., 8.
[54] H. Arendt, Le origini, cit., 600 e J. Amery, Un intellettuale ad Auschwitz, Bollati – Boringhieri, 1993, 118.
[55] Pasquini – Quaglio, cit., 327.
[56] P. Levi, Se questo è un uomo, cit., 18.
[57] P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., 114.
[58] Agamben lo definisce un «implacabile agrimensore» dei Lager (G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz, Bollati Boringhieri, 1998)
[59] Scrive P. Levi ne I Sommersi e i salvati, cit., p. 110: «non ho tendenza a perdonare non ho perdonato nessuno dei nostri nemici di allora, né mi sento di perdonare i loro imitatori (…), perché non conosco atti umani che possano cancellare una colpa; chiedo giustizia, ma non sono capace, personalmente, di fare a pugni, né di rendere il colpo».
[60] C. Ozick, Il messaggio d’addio, in AA.VV., Primo Levi: un’antologia della critica, cit., 151.
[61] P. Levi, Il sistema periodico, Einaudi, 1994, 244.
[62] S. Natoli, Dal dovere di ricordare alla paura di dimenticare, Prefazione a M. Milli, Auschwitz – Il fallimento del pensiero, Città Aperta, 2005, p. 15.
[63] Levi è arrivato a formulare una sorta di personale decalogo di scrittore: «Tu scriverai conciso, chiaro, composto; eviterai le volute e le sovrastrutture; saprai dire di ogni tua parola perché hai usato quella e non un’altra; amerai ed imiterai quelli che seguono queste vie» (P. Levi, Dello scrivere oscuro, in L’altrui mestiere, Einaudi, 1985, 187).
[64] P. Levi, Se questo è un uomo, cit., 45.
[65] P. Levi, La tregua, cit., 325.